Sansonetti Piero Moglie – Questo caso è estremamente complesso poiché nasce da una denuncia per diffamazione presentata da due potenti magistrati: il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e Guido Lo Forte, procuratore ora in pensione. Incriminati Piero Sansonetti e Damiano Aliprandi, due giornalisti de Il Dubbio. Solo perché il giornale è stato stampato in un negozio di Carsoli non significa che il caso debba essere ascoltato ad Avezzano.
Non siamo in grado di commentare i dettagli di quanto detto in udienza per la delicatezza della questione in esame, oggetto della cronaca di oggi. In udienza è intervenuto il massimo procuratore di Palermo, Scarpinato, ma il giudice ha precluso l’accesso all’aula del pubblico e della stampa adducendo l’esistenza di una “emergenza covid”. È un processo a dir poco improbabile, viste le regole che richiedono udienze aperte o il loro annullamento.
Per quanto spiacevole, si ha l’impressione che il tribunale di Avezzano sia più pragmatico del Re e disposto a concedere ai due noti pubblici ministeri una certa riservatezza durante tutto il processo. Sono così riservati che avranno solo una festa intima a casa. Quindi, guardiamo e vediamo cosa si sviluppa. La mia udienza in tribunale è stata ieri a mezzogiorno, quindi sono andato lì come giornalista per SITe.it; Ero l’unico membro dei media lì. Ma non posso entrare perché “solo le parti possono entrare in aula”, dicono sulla porta.
Mi mostrano un’ordinanza interdittiva del presidente del tribunale, ma faccio presente che è scaduta a luglio 2020, quindi dopo una serie di telefonate e verificata la validità del mio pass verde, vengo ammesso in aula, dove mi mi trovo l’unico testimone oltre al giudice, al pm, agli avvocati difensori e di parte civile. Forse all’inizio mi prendono per un quarto ragazzo della scorta, ma poi c’è il problema del mio essere un “giornalista” in classe. Inutile dire che è il pm Andrea Morichini Padalino a farsi sentire, e lo fa con l’esplicita e facendo registrare la sua posizione sulla presenza dei media in aula.
Invece, il difensore dirà: “Non ci opponiamo”. Sorprendentemente, il giudice stabilisce che “la presenza di altre persone in aula è impropria per rispettare il distanziamento”; in altre parole, l’emergenza sanitaria. Certo, le “altre persone” sono solo l’unico giornalista lì, quindi l’emergenza covid è solo un pretesto per esultare il vero pubblico in fondo. Ma questa non è la fine; improvvisamente, sono circondato dai membri maschi della scorta, che, ho determinato,
stanno cercando di spaventarmi a morte dicendomi “non puoi fare foto” e poi aggiungendo “devi rimuovere loro dal telefono”. Naturalmente, la mia risposta è che posso gestirli e che, semmai, tutto dipende da come scelgo di rilasciarli. Sono stato individuato da loro. In realtà, questa è la terza volta: la prima volta, gli ho dato il cartellino sul posto quando sono entrato in classe per tranquillizzarli; la seconda volta, il giudice ha verificato la mia identificazione prima di bandirmi dall’udienza.
Hanno la mia documentazione e tuttavia insistono per la cancellazione, citando problemi di sicurezza. Poi vogliono che gli porga il telefono, a quel punto lo poggio delicatamente sul tavolo ricordando loro che, come giornalisti, non siamo autorizzati a rivelare le nostre fonti senza il permesso di un giudice. Quando dico loro di perdersi, minacciano di convocare una pattuglia, alla quale suggerisco che questa potrebbe essere l’opzione migliore.
Il procuratore capo, Scarpinato, è attualmente all’interno di una delle due auto di scorta che aspettano fuori dal tribunale l’arrivo della pattuglia; quando diciamo “sicurezza”, intendiamo il tempo. Alla fine si presenta una pattuglia dei carabinieri, mi identifica positivamente per la quarta volta, e spiega ai colleghi della scorta che sono libero di fare foto, che da giornalista dovrei già sapere come pubblicarle potenzialmente, e che loro non posso prendere il mio telefono ed eliminare le foto senza un ordine del tribunale.
Il problema è stato risolto; le foto sono incluse in questo articolo. Tuttavia, il Dpcm n minaccia uno dei pilastri di uno Stato democratico: la garanzia che la giustizia sia amministrata in nome del popolo, che al popolo debba essere data la possibilità di controllarla, e che il giornalismo gioca un ruolo in questo controllo. Il governo italiano ha approvato la legge n. 137 il 30 ottobre 2020, rendendo i processi a porte chiuse la norma nelle aule dei tribunali italiani.
Al Ministero manca la forza intestinale per accollarsi le colpe di questo provvedimento drastico, il Dpcm d’emergenza, passando invece i soldi ai presidenti dei tribunali o, in alcuni casi, ai singoli magistrati. Questo è un altro degli incantesimi di emergenza che implora vendetta. I due giornalisti accusati sono stati querelati per un’indagine giornalistica su una serie di articoli attinenti al “Dossier mafia e appalti”, che sono stati archiviati di fretta
mentre cavalca un cavallo. Riguardo all’omicidio del giudice Borsellino a Palermo, in Sicilia, da parte di mafiosi nel luglio del 1992. Le ramificazioni della storia sono profondamente inquietanti. È improbabile che Borsellino sia stato ucciso a causa del suo interesse per questo servizio, ammesso che i due giornalisti non abbiano commesso errori nella loro ricostruzione.
Questa tesi contrasta con quella avanzata nel processo relativo alla presunta trattativa Stato-mafia, secondo cui Borsellino sarebbe stato assassinato perché a conoscenza e contrario ai colloqui. Trovi interessante che io abbia confrontato queste due tesi? Pensiamo di sì, e l’azione intrapresa ad Avezzano è un fattore che può aiutare a realizzare questo.